Agli anni che si chiudono

21 Dic 2019 | fatti miei

Scrivo questo post più per un bisogno personale di scrivere che per altro. Ed è il motivo per i mille post in bozze o per cui spesso non pubblico nulla. “Serve a me o serve a chi mi legge” è la madre di tutti i progetti di content marketing ben fatti, ma è anche il piatto preferito dell’autocensura.

Il fatto è che a me tirare le fila degli anni che passano è sempre sembrato importante, e scriverlo è l’unico modo che ho, e che abbiamo, per pensarci davvero, per guardare con un po’ di consapevolezza a quello che ci succede invece che lasciarcelo scivolare semplicemente addosso.

All’inizio del 2018 ho giocato a trovare la mia parola dell’anno. Per me, che sono sempre molto pragmatica e altrettanto scettica, è stato davvero un gioco, un modo per passare un po’ di tempo senza lavorare e in leggerezza. Ne è uscita concrete, che mi è piaciuta sia per il suo invito a concretizzare che per il suo significato di cemento. Stare con i piedi per terra, cementare gli obiettivi, concretizzare sogni e progetti, essere più concreta, forte, di sostegno. Mi è piaciutà così tanto che l’ho scritta in un anello e non l’ho più tolta.

Per il 2019 non ho scelto una parola, ma forse ho reso più giustizia a concrete nell’anno che non era il suo.

Realizzare i sentimenti

Parlo e scrivo pochissimo della mia vita personale, forse anche un po’ per scaramanzia. Ho visto tante di quelle coppie (di amici, conoscenti o semplicemente seguite sui social) frantumarsi in tanti piccoli pezzetti, e io la forza di giustificare poi, di spiegare, di dover mostrare anche quello non so se ce l’avrei. Ma poi che gliene frega alla gente? Rispetto chi lo fa, mi sciolgo di fronte a certi post, non giudico le tonnellate di soli selfie, foto di baci con citazione. Non mi interessa: se vi rende felici, va bene così. Diciamolo che siamo felici, ci sta.

Però mai come quest’anno mi sono ritrovata spesso a pensare, e a dire, “sono fortunata – siamo fortunati”. Oggi, indipendentemente da come andrà, sono fortunata. Sono felice. E non è scontato.

Ho visto sentimenti sfracellarsi di fronte alla convivenza, matrimoni finire dopo pochi mesi, il romanticismo infrangersi quando qualcuno mi dice che ci si sposa così poi è più difficile lasciarsi. E non c’è una ricetta per proteggersi da tutto questo, una soluzione, un metodo, un corso. Succede.

Però una cosa l’ho realizzata qualche settimana fa: non ho mai pensato nemmeno per un secondo di convivere con un bambino di 3 anni a cui devo insegnare a stare al mondo. Per me era ovvio, ma non è così per molti, e lo vedi quando trascorri un po’ di tempo con loro, anche fuori casa. Dopo 4 anni quello che non riconosce il basilico dai peperoni nell’orto, e che aveva il terrore della lavatrice, fa mille cose in casa e meglio di me (che non sono esattamente un angelo del focolare, ma sono stata cresciuta come ogni ragazzino della mia generazione, maschi a videogame e femmine a preparare la tavola). E non ho dovuto chiedere.

Non lo so come si fa, ma per me stare assieme non può essere faticoso. Mai. Abbiamo bisogno di spalle larghe da abbracciare e su cui piangere, di persone che ci facciano sentire belli, che ci incoraggino, che ci rendano migliori. Altrimenti stiamo bene anche da soli.

L’anno prossimo festeggiamo 10 anni, e io spero che aver scritto queste cose non mi porti sfiga. E comunque non ha ancora istallato le luci di Natale, unico suo compito natalizio, e no, le piante nell’orto non le riconosce ancora, giusto per dimostrare che la perfezione non esiste.

Materializzare i viaggi

Nel 2019 sono tornata in Giappone, dopo esserci stata per la prima volta solo l’anno prima. Per il 2020 abbiamo prenotato a fatica dei voli verso Ovest, ma è stata e continua ad essere dura. Non lo so spiegare, ma voglio capirlo di più, meglio, a fondo, vedere ancora quei visi. E per farlo devo tornarci, e tornarci, e magari rimanerci per un po’. Per il resto nel 2019 ho viaggiato poco, e sono tornata in posti che già conoscevo: a Berlino, a Roma, in Croazia giusto per vedere il mare. Avrei voluto viaggiare di più, vorrei poterlo fare e potermelo permettere.

VIVERE PRIME VOLTE

C’è stato il mio primo TEDx vissuto dall’altra parte della barricata, ho fatto per la prima volta una cosa che mi spaventava molto e che forse prenderà forma nel 2020, mi sono messa per la prima volta in gioco su tante cose tra cui il corso di doppiaggio. Volevo fare da una vita un corso così, e anche se la vicinanza con il teatro mi terrorizza (vorrei vedere te a sederti su uno sgabello convinta di dover leggere una lettera come se te l’avesse scritta una persona a te cara, che è proeccupata per te, e poi quando la apri scopri che il foglio è completamente vuoto e devi improvvisare il contenuto… io volevo scappare!), mi vergogno terribilmente e mi sento la più scarsa del corso (l’autostima si concretizzerà nel duemilamai) mi piace, tanto, mi sta aiutando a sciogliermi, a parlare meglio, e anche se ora continuo a correggermi ogni volta che pronuncio bene o tempo con la e chiusa, so che prima o poi diventeranno un’abitudine. E non vedo l’ora!

Vedere l’ansia

Ma come fai a fare tutto? Lo faccio, e poi mi viene l’ansia. Quest’anno sono arrivata a chiedere ad un’amica il nome del suo psicoterapeuta perché non dormivo da settimane, mi sembrava di non respirare, avevo un peso sul petto, lo stomaco sottosopra come prima di un esame e mi sentivo quasi svenire. Poi non ci sono andata, mi è passato, ma lo scrivo perché spesso guardiamo agli altri immaginando vite perfette, successi senza fatica, e a noi non gira come dovrebbe perché c’è la sfiga. Invece c’è tanta fatica anche per le vite normali, per fare bene un lavoro, per coltivare una passione, per una singola soddisfazione, per ogni ambizione. Senza quella fatica non si arriva nemmeno in fondo ad una marcia non competitiva. Ogni tanto guardare alle cose fatte e pensare “ma come ci sono riuscita?” fa bene. Dovremmo farlo più spesso. Magari ci verrebbe anche meno ansia, ma per quello aspetto il parere di uno specialista.

Mettere in atto quello che sai fare

Fin da piccola mi sono sempre aspettata che qualcuno mi dicesse brava. Ne avevo bisogno per sapere di esserlo: se non me lo dici, non lo sono. Lo sport è una tragedia per quelli come me, ma il lavoro è peggio. Da adulta faccio ancora più fatica a pensarlo, tanto più che è difficile avere persone che te lo dicano. Quando lo fanno accampo scuse: è perché mi vuole bene, non mi conosce abbastanza bene, lo dice per cortesia.

Io non lo so se sono brava, ovviamente, ma quest’anno ho capito che ce la metto tutta, e lo faccio non perché qualcuno me lo dica, ma perché lo voglio pensare io. E non brava: voglio pensare che sono migliorata, che ho imparato, che posso fare meglio e farlo. Voglio che quello che faccio abbia un senso che va oltre uno stipendio, un fatturato, una to do list depennata. Ho tante cose per la testa, e non so quali e come le concretizzerò, ma sono lì a ricordarmi che se non le faccio spesso è solo perché non ho iniziato.

Non so se cercherò una parola per il 2020, ma se tu vuoi provarci c’è un mini corso gratuito per trovarla. Io non mi auguro di sentirmi brava, forse mi basta brave, ché i capelli rossi li ho già.

Buone Feste.