Se la pubblicità non deve più (solo) vendere

4 Feb 2017 | comunicazione e marketing, cose che imparo

La settimana scorsa sono andata ad ascoltare nuovamente Paolo Iabichino, Executive Creative Director di Ogilvy, in una serata nella splendida Tipoteca di Grafiche Antiga a Cornuda (TV), promossa da Fior di Risorse. E come ogni volta, ascoltarlo è una boccata di aria fresca, un esercizio per vedere le cose in modo diverso.

Quello che ho sentito è stata, per me, anche l’ennesima conferma di quello che nelle ultime settimane è ancora di più davanti ai nostri occhi: mai come ora il ruolo di un’azienda non è solo quello di vendere. O meglio, certo che deve vendere, ma il prodotto deve avere un valore, percepito, per essere acquistato. E il valore di un’azienda si misura anche dalla sua presa di posizione, e non dal posizionamento. Google potrebbe, ipoteticamente, lasciare gli Stati Uniti come protesta contro i recenti provvedimenti di Trump, per esempio. Nel frattempo ci sono aziende che si schierano palesemente contro le stesse decisioni, come Corona con questo spot o Starbucks, che dichiara che assumerà 10.000 rifugiati.

Non si parla più di idea, ma di ideale.

E la pubblicità va di conseguenza. Non crea consumer insights costruiti sul niente – come dice appunto Iabichino – ma lavora sulle tensioni culturali. Sulle diversità, sui pregiudizi, sull’autostima, sul destino della collettività. L’azienda oggi si prende la briga di preoccuparsi di cose di cui nessuno si occupa seriamente: la diversità di genere, la parità dei sessi, il raccontare storie che pochi conoscono, farci riflettere, pensare, cambiare. Tocca i nervi scoperti. Così fa quello per cui la pubblicità è nata: intercetta il suo pubblico, diventando parte delle sue conversazioni, anche nei social, e si fa scegliere. Scegliere, non comprare. E con la comunicazione deve far risuonare quello che le persone sentono fuori dalle nostre sale riunioni. In un incontro precedente al TTG Iabichino aveva detto un’altra cosa molto, ma molto bella:

Empatia. E come si fa?

Quando crei una strategia, ti chiedi: “What do we want people to feel?” Loro sì…

L’hai visto il recente video della televisione danese, vero? Non si parla di programmi, di film, di testimonial della rete… si parla agli, ma soprattutto degli, spettatori.

Che poi sorvoliamo sul fatto che non posso più nemmeno guardare una pubblicità senza piangere ormai. Ma io vi metto qui sotto un po’ degli esempi che più mi sono piaciuti tra quelli proposti nella serata e non solo. Molti li avrete già visti sicuramente. E poi ditemi se non vi siete commossi un po’, un occhio lucido, un labbro che trema.

Dove – 2013

Philips – 2015

Angel – marzo 2016 , e le emoji erano solo maschi (poi tra giugno e agosto sono arrivate anche le poliziotte. Ripeto, nel 2016.)

P&G – Giochi Olimpici Rio 2016

e prima, per le Olimpiadi di Londra nel 2012.

e nel 2014, Sochi.

Troppa melassa? Non è detto, se sei il Rolling Stones puoi permetterti prese di posizione come questa:

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